Le collezioni d'arte
Descrizioni a cura di Daniele D’Anza e Matteo Gardonio.
Riposo durante la fuga in Egitto
L'artefice dell'opera in esame, nel tentativo di declinare la fredda visione spaziale nordica in una più dolce sfumatura mediterranea, sembra dichiarare la conoscenza di entrambe le culture figurative. Il linguaggio pittorico adottato rivela una sintesi tra l'elemento spaziale di gusto nordico e una più sfumata definizione plastica delle figure di chiara matrice veneziana. Un fiammingo addolcito al sole del mediterraneo, che vede Giorgione e il primo Tiziano. Il dipinto è entrato a far parte della collezione con il lascito Baldo Calojanni, nel cui inventario risulta l'opera maggiormente stimata.
Apollo e Diana
Sulla cornice la targa reca l'indicazione “Pietro Liberi detto Libertino”.
Negli antichi inventari dell'Istituto il soggetto viene identificato in Orfeoed Euridice, l'inversione però dei ruoli, lei che si volta a guardare lui, tenderebbe ad escludere questa indicazione, pur nell'aderenza degli attributi. In riferimento al tema trattato l'ipotesi più probante vede nelgiovane uomo il dio Apollo, in virtù degli attributi che lo accompagnano: la corona d'alloro sul capo e la lira da braccio nella mano sinistra. Egli, infatti, fu anche dio della poesia e della musica.
Il dipinto si inserisce in quella produzione di mezze figure diffusa a Venezia, e non solo, soprattutto nella seconda metà del Seicento. Persistenze di gusto accademico-bolognese, evidenti nel volto della giovane, paiono filtrate attraverso una sensibilità veneziana, palmare nella definizione chiaroscurale degli incarnati. A tal proposito indicativo appare il tradizionale riferimento al cavaliere Pietro Liberi, maestro in scene erotico mitologiche, a cui sovente è stato affiancato il nome di Giuseppe Diamantini, autore di questo dipinto.
Il dipinto si inserisce in quella produzione di mezze figure diffusa a Venezia, e non solo, soprattutto nella seconda metà del Seicento. Persistenze di gusto accademico-bolognese, evidenti nel volto della giovane, paiono filtrate attraverso una sensibilità veneziana, palmare nella definizione chiaroscurale degli incarnati. A tal proposito indicativo appare il tradizionale riferimento al cavaliere Pietro Liberi, maestro in scene erotico mitologiche, a cui sovente è stato affiancato il nome di Giuseppe Diamantini, autore di questo dipinto.
Elifaz, Bildad e Zofar cercano di consolare Giobbe dalle sue disgrazie
L'episodio narrato affronta un tema vetero-testamentario ripreso dal Libro di Giobbe, in particolare dal terzo capitolo. Giobbe, ricco possidente di Uz, uomo integro e retto, “il più grande di tutti gli Orientali”, viene messo alla prova da Jahwè, che, a seguito d'un colloquio con Satana, acconsente di testare il grado di probità e fedeltà dell'uomo, lasciando l'iniziativa all'angelo ribelle.
Iniziano così a cadere sul pover’uomo le disgrazie impartite dal maligno: i Sabei gli sottraggono i buoi e le asine, i Caldei gli rubano i cammelli passando “a fil di spada i servitori”; e ancora, un incendio, “caduto dal cielo”, colpisce le pecore e i suoi servitori, mentre un vento impetuoso si abbatte sulla sua casa distruggendola e decimandogli la prole. Si configurano così, in queste quattro calamità, le fonti primarie delle sofferenze che rendono impotente l'individuo: l'uomo e la storia da un lato, la natura e la creazione dall'altro. A queste tragedie improvvise e imprevedibili Giobbe reagisce accettando umilmente la volontà divina: si rade il capo, si straccia il mantello ed esclama: “nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno” (I, vv. 20-22). Saldo nelle sue convinzioni, Giobbe però rimane sempre più isolato, tanto da decidere, alfine, di chiudersi in un grande silenzio, condiviso dai suoi tre amici, Elifaz, Bildad e Zofar. Questi giunsero da lui per cercare di condividere e alleviare la sua sofferenza: “Rimasero seduti per terra, presso a lui, sette giorni e sette notti; e nessuno di loro gli rivolse la parola, perché vedeva che il suo dolore era molto grande” (II, vv. 12-13). Una vicinanza silenziosa, carica di significati e d'intensità, sintetizzabile nel principio “parlare è anche tacere”.
Nel dipinto in esame si raffigura il momento successivo, quando Giobbe, rotto il silenzio, maledice il giorno in cui è nato dando vita con gli amici a un dibattito sul senso della sofferenza. Un dialogo serrato in cui il pittore sottolinea l'intensità dei pensieri, mediante una forte concentrazione di sguardi e una gestualità accentuata. Gli amici, il cui pensiero rappresenta la migliore cultura arabo-ebraica allora dominante, lo incalzano cercando di rintracciare nel suo comportamento le cause delle sofferenze che lo hanno colpito. Di fronte alle sofferenze del giusto infatti, vi ravvisavano una condotta fallace, avvenuta magari in tempi lontani o da attribuire a qualche avo. Il poveruomo tuttavia non può che respingere tali congetture, ritenendo di soffrire ingiustamente; i tre amici allora passano a confortarlo, ricordandogli come la felicità degli empi sia di breve durata, mentre le disgrazie del giusto ne saggino la sua virtù, o, ancora, come Dio castighi per prevenire colpe più gravi o per guarire dal peccato d'orgoglio.
Stilisticamente, la pennellata compendiaria, sciolta e vibrante trova nella pittura veneziana della seconda metà del Cinquecento, e particolarmente in quella veronesiana, il suo principale modello estetico. Un gusto, quello neoveronesiano, che interessò prevalentemente la pittura veneziana del Seicento, ma che conobbe fortuna anche in altre realtà artistiche d'Italia. In questo caso, il dipinto può essere riferito al pennello Giovanni Antonio Fumiani, pittore veneziano, che dopo un primo orientamento accademico emiliano, modulò il proprio stile in sintonia con la nuova corrente “neoveronesiana”, che a Venezia in quegli anni resisteva alle violente drammatizzazioni luministiche dei cosiddetti “tenebrosi”.
Iniziano così a cadere sul pover’uomo le disgrazie impartite dal maligno: i Sabei gli sottraggono i buoi e le asine, i Caldei gli rubano i cammelli passando “a fil di spada i servitori”; e ancora, un incendio, “caduto dal cielo”, colpisce le pecore e i suoi servitori, mentre un vento impetuoso si abbatte sulla sua casa distruggendola e decimandogli la prole. Si configurano così, in queste quattro calamità, le fonti primarie delle sofferenze che rendono impotente l'individuo: l'uomo e la storia da un lato, la natura e la creazione dall'altro. A queste tragedie improvvise e imprevedibili Giobbe reagisce accettando umilmente la volontà divina: si rade il capo, si straccia il mantello ed esclama: “nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno” (I, vv. 20-22). Saldo nelle sue convinzioni, Giobbe però rimane sempre più isolato, tanto da decidere, alfine, di chiudersi in un grande silenzio, condiviso dai suoi tre amici, Elifaz, Bildad e Zofar. Questi giunsero da lui per cercare di condividere e alleviare la sua sofferenza: “Rimasero seduti per terra, presso a lui, sette giorni e sette notti; e nessuno di loro gli rivolse la parola, perché vedeva che il suo dolore era molto grande” (II, vv. 12-13). Una vicinanza silenziosa, carica di significati e d'intensità, sintetizzabile nel principio “parlare è anche tacere”.
Nel dipinto in esame si raffigura il momento successivo, quando Giobbe, rotto il silenzio, maledice il giorno in cui è nato dando vita con gli amici a un dibattito sul senso della sofferenza. Un dialogo serrato in cui il pittore sottolinea l'intensità dei pensieri, mediante una forte concentrazione di sguardi e una gestualità accentuata. Gli amici, il cui pensiero rappresenta la migliore cultura arabo-ebraica allora dominante, lo incalzano cercando di rintracciare nel suo comportamento le cause delle sofferenze che lo hanno colpito. Di fronte alle sofferenze del giusto infatti, vi ravvisavano una condotta fallace, avvenuta magari in tempi lontani o da attribuire a qualche avo. Il poveruomo tuttavia non può che respingere tali congetture, ritenendo di soffrire ingiustamente; i tre amici allora passano a confortarlo, ricordandogli come la felicità degli empi sia di breve durata, mentre le disgrazie del giusto ne saggino la sua virtù, o, ancora, come Dio castighi per prevenire colpe più gravi o per guarire dal peccato d'orgoglio.
Stilisticamente, la pennellata compendiaria, sciolta e vibrante trova nella pittura veneziana della seconda metà del Cinquecento, e particolarmente in quella veronesiana, il suo principale modello estetico. Un gusto, quello neoveronesiano, che interessò prevalentemente la pittura veneziana del Seicento, ma che conobbe fortuna anche in altre realtà artistiche d'Italia. In questo caso, il dipinto può essere riferito al pennello Giovanni Antonio Fumiani, pittore veneziano, che dopo un primo orientamento accademico emiliano, modulò il proprio stile in sintonia con la nuova corrente “neoveronesiana”, che a Venezia in quegli anni resisteva alle violente drammatizzazioni luministiche dei cosiddetti “tenebrosi”.
In famiglia
Protagonista della generazione del così detto verismo veneto, Egisto Lancerotto conobbe il successo per le sue composizioni aneddotiche soprattutto negli anni Ottanta dell'Ottocento. L'imponente e armoniosa tela oggi nella sala riunione dell'I.T.I.S., dalla “veloce e svolazzante stesura di matrice favrettiana”, venne ammirata a Trieste nel 1890 e acquistata dagli Alimonda per abbellire le sale del loro castello di Sagrado, chiamato non a caso “Miramare sull'Isonzo”. Il collezionismo locale ammaliato com'era dalla pittura veneta contemporanea (negli stessi anni in cui l'opera di Favretto, Una dichiarazione, entrava nel museo Revoltella) non poteva che premiare con l'acquisto anche una tela così sgargiante, ospitata con entusiasmo nelle sale del palazzo Revoltella dall'esposizione promossa dal Circolo Artistico.
Lancerotto, non rinunciando a un bagaglio cromatico tipicamente alla veneta, che aveva in Giacomo Favretto e Luigi Nono due interpreti d'eccezione, aggredisce la tela con un vigore moderno, autentici graffi, segni ben visibili, per esempio, nella rete da pesca utilizzata quale elemento scenografico alle spalle dell'allegra scena che vede i due umili nonni giocare con il nipotino seduto sul tavolo dinanzi alla madre.
Lancerotto, non rinunciando a un bagaglio cromatico tipicamente alla veneta, che aveva in Giacomo Favretto e Luigi Nono due interpreti d'eccezione, aggredisce la tela con un vigore moderno, autentici graffi, segni ben visibili, per esempio, nella rete da pesca utilizzata quale elemento scenografico alle spalle dell'allegra scena che vede i due umili nonni giocare con il nipotino seduto sul tavolo dinanzi alla madre.
Venditrice di frutta (Fruttivendola veneziana)
La Venditrice di frutta o Fruttivendola veneziana è uno degli esempi più felici nati dall'esuberante pennello di Umberto Veruda, in questo caso intriso di luminosa verità veneziana. L'opera, eseguita fra le lagune nell'estate del 1892 in parallelo al Garanghelo del Civico Museo Revoltella di Trieste, fu presentata dal pittore nell'autunno successivo, nell'unico asilo cittadino per gli artisti che volessero esporre in pubblico, ossia il negozio Schollian. Si trattava in verità di una “botteguccia d'antiquario e di decoratore”, ubicata “in quel primo tronco della via Roma, che si chiamava allora via Ponterosso”. Il lavoro fu valutato favorevolmente dalla critica, che evidenziò i progressi fatti dall'artista. Ricorda Silvio Benco, come la rivelazione dell'opera di Veruda fosse intesa nei circoli cittadini come una rivoluzione: “entrava con lui a Trieste l'impressionismo, sfondando bruscamente le porte: non si parlava che di lui, come non si è mai parlato in città di alcun altro pittore: e alle novità del suo modo di dipingere violento e scorretto, sorpassate le inesperienze con l'imperiosità dei toni aspri e con una tal quale freschezza irruente delle pennellate, il Veruda aggiungeva le stravaganze di un dandismo eccentrico, che nessuno osò «più mai imitare».
Molto apprezzati furono, non solo il volto ridente e la posa sensuale della giovane popolana, ma anche la gustosa natura morta in primo piano, i vasi di terraglia e la lampada fiorentina sul fondo. La Venditrice di frutta fu acquistata dal dottor Alimonda, direttore dell'Istituto elettro-terapico di Sagrado (Gorizia). Il dipinto ha fatto quindi parte della Fondazione Melchiorre Pasquale Alimonda de Manentreu, costituita il 30 giugno 1906 e confluita nel 1978 nella Fondazione Ananian di Trieste.
Molto apprezzati furono, non solo il volto ridente e la posa sensuale della giovane popolana, ma anche la gustosa natura morta in primo piano, i vasi di terraglia e la lampada fiorentina sul fondo. La Venditrice di frutta fu acquistata dal dottor Alimonda, direttore dell'Istituto elettro-terapico di Sagrado (Gorizia). Il dipinto ha fatto quindi parte della Fondazione Melchiorre Pasquale Alimonda de Manentreu, costituita il 30 giugno 1906 e confluita nel 1978 nella Fondazione Ananian di Trieste.
Vecchio dell'Istituto dei poveri
Personaggio eccentrico, un vero dandy della Trieste di allora, Veruda, rientrato da Monaco, strinse presto amicizia con lo scrittore Italo Svevo, dando vita a un forte sodalizio intellettuale e affettivo. La sua formazione conobbe ulteriori importanti capitoli: da quello parigino, alla scuola di Bouguereau e Robert-Fleury a quello romano, dove ebbe modo di risiedere in via Margutta e frequentare il vicino Caffè Greco, in quegli anni teatro di vivaci incontri tra artisti e poeti, fino all'ultimo capitolo londinese di Blenheim Palace, residenza dei Duchi di Marlborough. “A quando a quando, giunge nella sua Trieste e si riposa; ma di un vigile riposo che è studio, amore dei movimenti della folla, amore del mare, amore del sole”.
A uno dei primi momenti di questo “vigile riposo” triestino è riferibile il dipinto in esame, databile al 1887 circa. Esso risente, evidentemente, di quel realismo tedesco espresso in lingua impressionista da Max Liebermann, a cui il pittore triestino si legò “subito di durevole amicizia, sentendolo in qualche modo congeniale a se stesso”. Il Vecchio dell'Istituto dei poveri di Trieste attende a questa concezione dell'arte, che a Venezia si identificò nel cosiddetto verismo, il cuoi massimo esponente fu Giacomo Favretto, anch'egli fonte vitale di ispirazione per il pittore triestino. Si tratta di un vecchio, stanco e seduto, che trova appoggio alle proprie fatiche e alle proprie sofferenze nel bastone da passeggio. Il volto è arcigno, ma lo sguardo rimane fiero, penetrante.
A uno dei primi momenti di questo “vigile riposo” triestino è riferibile il dipinto in esame, databile al 1887 circa. Esso risente, evidentemente, di quel realismo tedesco espresso in lingua impressionista da Max Liebermann, a cui il pittore triestino si legò “subito di durevole amicizia, sentendolo in qualche modo congeniale a se stesso”. Il Vecchio dell'Istituto dei poveri di Trieste attende a questa concezione dell'arte, che a Venezia si identificò nel cosiddetto verismo, il cuoi massimo esponente fu Giacomo Favretto, anch'egli fonte vitale di ispirazione per il pittore triestino. Si tratta di un vecchio, stanco e seduto, che trova appoggio alle proprie fatiche e alle proprie sofferenze nel bastone da passeggio. Il volto è arcigno, ma lo sguardo rimane fiero, penetrante.
Marina con veliero
Nel 1890 un giovanissimo Guido Grimani frequenta gli impegnativi studi all'Accademia di Belle Arti a Monaco di Baviera seguendo le lezioni di Johann Herterich (1843-1905). Sono gli anni in cui, per non farsi riconoscere dalla critica triestina, si firma solamente con il proprio nome “Guido”. La splendida tela del 1890 presente nelle collezioni dell'I.T.I.S. appartiene esattamente a questa fase. L'opera fu acquistata dagli Alimonda che – va ricordato – nello stesso anno si impossessarono anche della splendida In famiglia di Lancerotto, evidentemente alla ricerca di tele importanti da affiancare alla ricca decorazione delle sale del loro castello di Sagrado.
Così nello scorcio della Trieste dell'epoca, che si perde ad occhio sino a quell'angolo suggestivo della Sacchetta delimitato dal faro sullo sfondo, si muove insieme alle umili barche da pesca, un imponente veliero, in una sorta di Seicento nordico rinato. Si tratta di un lavoro fondamentale per capire il Grimani degli esordi, alle prese con le prime importanti prove su questo tema, soprattutto con protagonista il golfo di Trieste. Di lì a poco infatti, a partire dal 1894, sceglierà Napoli, attratto dalle ricerche di uno dei continuatori della gloriosa scuola di Resina, Eduardo Dalbono (1841-1915).
Così nello scorcio della Trieste dell'epoca, che si perde ad occhio sino a quell'angolo suggestivo della Sacchetta delimitato dal faro sullo sfondo, si muove insieme alle umili barche da pesca, un imponente veliero, in una sorta di Seicento nordico rinato. Si tratta di un lavoro fondamentale per capire il Grimani degli esordi, alle prese con le prime importanti prove su questo tema, soprattutto con protagonista il golfo di Trieste. Di lì a poco infatti, a partire dal 1894, sceglierà Napoli, attratto dalle ricerche di uno dei continuatori della gloriosa scuola di Resina, Eduardo Dalbono (1841-1915).
Scena di battaglia
L'opera in esame evidenzia uno scontro tra cristiani e infedeli, questi ultimi riconoscibili dal consueto copricapo a turbante. Tale generica indicazione conferisce un esile pretesto narrativo a questo tipo di pitture sovente “senza storia” e “senza eroi”, in cui cavalli e cavalieri assumono lo stesso valore estetico-narrativo. In questo concitato ammassarsi di gruppi belligeranti non compaiono peraltro armi da fuoco, ma soltanto sciabole e scimitarre. Si registra inoltre una certa teatralità nelle pose dei contendenti e una rilevata resa delle masse muscolari dei cavalli, cifra distintiva del pittore fiammingo Pauwel Casteels, attivo nella seconda metà del Seicento. Si tratta di un'artista poco presente nelle realtà museali e praticamente assente dai tradizionali repertori di battaglie. I suoi dipinti, al contrario, godono di un certo interesse a livello di mercato.
Scena di battaglia
L'opera è un felice esempio di quel genere pittorico sviluppatosi a partire dal XVII secolo, che prevedeva la rappresentazione di “un fatto d'arme sic et simplicer”. Se nei secoli precedenti, infatti, gli artisti si cimentarono nella realizzazione di dipinti volti a ricordare in tono celebrativo o commemorativo scontri bellici realmente accaduti, nel Seicento, che è il secolo dell'affermazione dei generi pittorici “minori”, si sviluppa, accanto alla natura morta e alla scene di genere, anche questo tipo di composizioni, che trovano la loro legittimazione e affermazione nel famoso Discorso sopra la pittura del marchese Vincenzo Giustiniani (Chios 1564 – Roma 1637).
Gli artisti iniziarono così a sviluppare le potenzialità, essenzialmente decorative, di questo genere pittorico. Nel dipinto di collezione ITIS alcuni cavalieri dal cappello piumato affiorano dal gran polverone sollevato dalle rispettive armate, i cui combattenti sembrano sparire tra i fumi dei loro archibugi. Tale coltre fumosa e polverosa occlude in gran parte lo scorcio paesistico, lasciando in evidenza soltanto le rocce e il terriccio in primo piano.
Gli artisti iniziarono così a sviluppare le potenzialità, essenzialmente decorative, di questo genere pittorico. Nel dipinto di collezione ITIS alcuni cavalieri dal cappello piumato affiorano dal gran polverone sollevato dalle rispettive armate, i cui combattenti sembrano sparire tra i fumi dei loro archibugi. Tale coltre fumosa e polverosa occlude in gran parte lo scorcio paesistico, lasciando in evidenza soltanto le rocce e il terriccio in primo piano.
Senza titolo
In questa sezione si è voluto rendere omaggio ad artisti di rilievo nell'arte contemporanea non solo giuliana, come nel caso di Apollonio Zvest, considerato uno dei più grandi pittori dell'area slovena del Novecento. Da poco scomparso (2009) Zvest conobbe un momento di grande successo internazionale allorquando, nel 1976, alla Biennale di grafica di Mulhouse vinse il premio speciale della critica. Nato a Bertocchi, a soli ventiquattro anni, nel 1959 mentre frequentava i corsi all'Accademia di Belle Arti di Lubiana, vinse il primo premio al concorso dei giovani artisti jugoslavi a Belgrado. Ricerca di un segno a rilievo, preziosismi quasi bizantini e sgretolamento della materia ne fanno i tratti distintivi della sua ricerca. Splendide le parole che lascia in una breve autobiografia: “Sono convinto che il tempo e il luogo della mia nascita (15 maggio 1935, Bertocchi presso Capodistria) non rappresentino una semplice casualità, ma siano invece due fattori importanti, che hanno influito in maniera determinante sulla mia vita, a partire dall'infanzia. Sono nato sotto il segno del Toro, questa mitica e al tempo stesso terrena figura di animale, pregna di forza vitale, di tragica bonarietà, ingenuità, assieme alla ferrea tenacia e l'irrefrenabile desiderio del bello, buono e piacevole. Se questo fatto ha caratterizzato il mio temperamento, l'altro ha segnato il percorso della mia vita. Sono nato in un luogo e in un periodo ai quali la storia non ha concesso né pietà né gloria, ma solo la crudele realtà del quotidiano, tra il mare e i villaggi dei piccoli, oserei dire poveri contadini, che vivono dei prodotti della vite e dell'olivo”.
Autoritratto
Paolo De Matteis, noto pittore napoletano, lavora dal 1714 (fino al 1718 circa) all'esecuzione di una tela di grandi dimensioni, raffigurante l'Autoritratto del pittore con l'Allegoria della pace di Utrecht e della pace di Rastadt, celebrante la fine della guerra di successione spagnola. Il quadro in questione è andato perduto in data imprecisata e di esso sopravvive soltanto un largo frammento che rappresenta il pittore seduto (Napoli, Museo di Capodimonte, cm 170x118). Nuova luce su questo quadro e sulla sua genesi viene fatta allora dall'importante dipinto di collezione ITIS, che per l'evidente somiglianza dell'uomo con quello dipinto al centro della tela in argomento può essere ritenuto un'effige certa di Paolo De Matteis. Lo sguardo del personaggio rivolto verso destra, mostra agevolmente l'uso di uno specchio e quindi rivela la sua natura di Autoritratto. Il marcato realismo del volto, con le sopracciglia folte, gli occhi scuri, le rughe evidenti che solcano il volto, tracciano la storia del personaggio. La fronte alta, coperta da un copricapo nero a turbante, evidenzia la marcata calvizie dell'uomo. Il collo, solcato di pieghe, prova l'età dell'individuo che dovrebbe avere intorno ai cinquant’anni. Aspetti fisionomici che ritornano nelle descrizioni dei suoi contemporanei.Per quanto riguarda l'origine di questo Autoritratto, esso potrebbe esser nato come prima idea per la grande tela del 1714, poi leggermente modificata nella versione definitiva, dove la testa viene girata verso destra, e non più a sinistra, e il colore del copricapo mutato da nero a bianco. Il suo stato non-finito sembrerebbe avvalorare la sua natura di studio preparatorio. Il nome Maratta che si legge sull'etichetta visibile in basso sulla cornice, non deve essere ritenuto solo frutto di fantasia, come pur talvolta accade, ma deve essere letto come probabile trascrizione di una tradizione legata al dipinto e nata in seguito al soggiorno romano di De Matteis e alla sua personale conoscenza del grande maestro di Camerano.
Maria Covacevich
Ritrattista formidabile, Isidoro Grünhut forma con Umberto Veruda e Arturo Fittke la triade della modernità, in termini pittorici, nella Trieste di fine Ottocento. La vicenda dell'artista è alquanto avventurosa e il ritratto presente nelle collezioni dell'I.T.I.S. rappresenta un tassello molto importante per comprenderne gli sviluppi. Autodidatta di sconvolgente talento, venne sfruttato da un impresario senza scrupoli che lo portò con sé per l'Italia facendolo lavorare in schiavitù. Riuscito a fuggire da questo aguzzino, frequentò l'Accademia di Venezia sotto la guida di Pompeo Molmenti tra il 1880 ed il 1882, per poi passare all'Accademia di Monaco tra il 1882 ed il 1884.
Il presente ritratto femminile potrebbe raffigurare Maria Covacevich (1844-1875), come sembra suggerire il confronto con il busto della stessa eseguito da Francesco Pezzicar e visibile nell'atrio dell'Istituto. Il disegno in oggetto rientra pienamente nella fase accademica veneziana del pittore e mostra chiaramente il livello qualitativo raggiunto a soli diciotto anni. Senza incertezze, con un gusto veristico già spontaneo, l'effigiata viene raffigurata di tre quarti e, nonostante la composizione si appoggi, con tutta probabilità, a un ritratto fotografico – l'effigiata morì giovanissima nel 1875 – Grünhut dimostra già una straordinaria padronanza del mestiere.
Il presente ritratto femminile potrebbe raffigurare Maria Covacevich (1844-1875), come sembra suggerire il confronto con il busto della stessa eseguito da Francesco Pezzicar e visibile nell'atrio dell'Istituto. Il disegno in oggetto rientra pienamente nella fase accademica veneziana del pittore e mostra chiaramente il livello qualitativo raggiunto a soli diciotto anni. Senza incertezze, con un gusto veristico già spontaneo, l'effigiata viene raffigurata di tre quarti e, nonostante la composizione si appoggi, con tutta probabilità, a un ritratto fotografico – l'effigiata morì giovanissima nel 1875 – Grünhut dimostra già una straordinaria padronanza del mestiere.
Ritratto di Giorgio Pitacco (1924)
Giorgio Pitacco fu Sindaco di Trieste e Senatore del Regno d'Italia. La sua presidenza alla Direzione Generale di Pubblica Beneficenza cadde in un momento di particolare trasformazione per l'Istituto, conseguenza della crisi subentrata nell'immediato dopoguerra e delle incertezze burocratico-amministrative generate dall'annessione della città all'Italia. Pitacco dovette, giocoforza, sopprimere la vecchia Istituzione, ormai esautorata dai suoi compiti primari a seguito del R.D. del 22 aprile 1923, che estendeva alle nuove provincie la legislazione italiana sulla beneficenza pubblica, con la costituzione, anche a Trieste, della Congregazione di Carità, già esistente dal 1862 nelle altre città italiane. “Il 12 dicembre 1923 la Direzione Generale di Pubblica Beneficenza teneva la sua ultima riunione, nella quale il Sindaco dott. Pitacco prendeva congedo dai suoi collaboratori, passando le consegne al primo Presidente della Congregazione di Carità Carlo Banelli”. L'anno successivo il pittore Edgardo Sambo ricevette l'incaricato per l'esecuzione del suo ritratto. Dopo un iniziale tirocinio alla scuola di Giovanni Zangrando, dal 1900 al 1904, e i successivi soggiorni a Vienna e a Monaco, Sambo frequentò il “Corso del nudo e costume” istituito dal Circolo Artistico di Trieste che gli valse nel 910, per merito, un sussidio di studio conseguito insieme all'amico Argio Orell; l'anno successivo ottenne la borsa di studio
“Pensionato Rittmeyer” per un soggiorno a Roma, dove tenne uno studio in via di Ripetta e dove ebbe modo di entrare in contatto, tra l'altro, con la pittura di Cézanne e Matisse, ammirata nella sala degli Impressionisti alla Prima Secessione Romana del 1913.In questo caso, il pittore frena la sua propensione a trasformare il dato naturalistico in forme astrattizzanti, secondo gli sviluppi secessionisti, mantenendo tuttavia inalterato quel gusto per una stilizzazione raffinata e decorativa. La floreale tappezzeria di fondo, inoltre, conferisce alla composizione una spiccata valenza decorativa, accentuata alla consueta cromia antinaturalistica.
“Pensionato Rittmeyer” per un soggiorno a Roma, dove tenne uno studio in via di Ripetta e dove ebbe modo di entrare in contatto, tra l'altro, con la pittura di Cézanne e Matisse, ammirata nella sala degli Impressionisti alla Prima Secessione Romana del 1913.In questo caso, il pittore frena la sua propensione a trasformare il dato naturalistico in forme astrattizzanti, secondo gli sviluppi secessionisti, mantenendo tuttavia inalterato quel gusto per una stilizzazione raffinata e decorativa. La floreale tappezzeria di fondo, inoltre, conferisce alla composizione una spiccata valenza decorativa, accentuata alla consueta cromia antinaturalistica.
Ritratto di Carlo Banelli (1938)
Enfant prodige della pittura triestina, Argio Orell fu ammesso ad appena diciotto anni alla scuola del grande simbolista monacense Franz Von Stuck, il quale intuì prontamente le capacità del suo giovane allievo. Rientrato nel capoluogo giuliano, gli fu subito proposta un'esposizione presso il negozio Schollian, allora vivace sede promozionale per gli artisti cittadini. La mostra, come ricorda il suo contemporaneo Sibilia, “ebbe un successo straordinario, come pochi se ne ricordano a Trieste: la folla faceva ressa innanzi al negozio per entrare e per vedere i lavori di questo giovane portentoso il cui nome era sulla bocca di tutti e che la stampa lodava con articoli di critica sincera ed affettuosa”. Pittore simbolista affascinato dalla flessuosa linea liberty, Orell, nel corso degli anni, maturò un distacco graduale da tali correnti europee accogliendo stilemi diffusi allora dal Novecento Italiano. Sedati i violenti impulsi giovanili, che lo condussero sulla strada del virtuosismo ostentato, il pittore matura la sua personale visione, frutto della convinzione che l'opera d'arte debba esser il risultato di una fredda elaborazione cerebrale.
Il dipinto in esame, si colloca nella fase conclusiva della sua attività, in un momento di rinato entusiasmo artistico, dopo un lungo periodo di malattia, ed è anche l'ultimo, ufficiale, 'rientro' sulla scena artistica triestina. Il Ritratto di Carlo Banelli fu, infatti, dipinto a Levade d'Istria tra l'agosto e il settembre del 1938; l'anno seguente la moglie lo fece ricoverare nell'Ospedale dei Cronici di Trieste, dove cessò di vivere nel gennaio del 1942. In quest'occasione Argio Orell rifugge il fare largo e svelto, per concentrarsi sul tratto esile, minuto e mai improvvisato. A guisa di trasparente pannello scenografico, la liquidità dello sfondo scioglie la visione, sfumando e deformando la realtà retrostante, mentre lo sguardo, divertito e acuto, di Carlo Banelli si plasma in un impasto copioso di rapidi tocchi di pennello. Scendendo, la veste acquista consistenza nell'intreccio di sottili filamenti di colore, impreziositi da una luce trasparente, diffusa e uniforme, che ne esalta la qualità dell'abito. Elegante e allusiva la firma in basso a destra.
Il dipinto in esame, si colloca nella fase conclusiva della sua attività, in un momento di rinato entusiasmo artistico, dopo un lungo periodo di malattia, ed è anche l'ultimo, ufficiale, 'rientro' sulla scena artistica triestina. Il Ritratto di Carlo Banelli fu, infatti, dipinto a Levade d'Istria tra l'agosto e il settembre del 1938; l'anno seguente la moglie lo fece ricoverare nell'Ospedale dei Cronici di Trieste, dove cessò di vivere nel gennaio del 1942. In quest'occasione Argio Orell rifugge il fare largo e svelto, per concentrarsi sul tratto esile, minuto e mai improvvisato. A guisa di trasparente pannello scenografico, la liquidità dello sfondo scioglie la visione, sfumando e deformando la realtà retrostante, mentre lo sguardo, divertito e acuto, di Carlo Banelli si plasma in un impasto copioso di rapidi tocchi di pennello. Scendendo, la veste acquista consistenza nell'intreccio di sottili filamenti di colore, impreziositi da una luce trasparente, diffusa e uniforme, che ne esalta la qualità dell'abito. Elegante e allusiva la firma in basso a destra.
Senza titolo
L'opera, donata dallo stesso Clamar all'ITIS, è un chiaro esempio della fase costruttivista dell'abile incisore. I suoi esordi, però, si registrano in tutt'altro campo. Dopo aver frequentato la Scuola del Nudo dell'Associazione Artistica Regionale a Trieste decise di muoversi a Venezia per imparare la soffiatura del vetro. E fu proprio Venezia, dopo aver seguito i corsi all'Accademia estiva di Salisburgo, a schiudergli il mondo dell'incisione alla Scuola Internazionale di Grafica. Dal 1975 iniziò una grande attività espositiva che lo portò ovunque, compresi gli Stati Uniti d'America. Grande parte della sua produzione ha avuto il tema suburbano industriale, trattato sempre con grande sensibilità e ricerca sperimentale della tecnica incisoria, qui di alienazione quasi cinematografica.
Paesaggio
Il crescente interesse nei confronti del paesaggista veronese Ercole Calvi, che meriterebbe uno studio specifico sulla sua attività espositiva pure triestina, corrisponde alla particolarità dei suoi scorci che paiono di scuola napoletana ma raffigurano paesaggi alpestri.
Nel caso della bella tela dell'I.T.I.S., si riconosce una delle sue migliori vedute nei pressi di Pescarenico, ovvero di quell'angolo nei pressi di Lecco reso immortale da Alessandro Manzoni. L'opera dimostra chiaramente il tipo di pittore e il perché andò incontro ad una sfortuna critica già a partire dalla fine dell'Ottocento.
Da raffronti con il nucleo di opere presenti nella collezione del Banco Popolare di Verona e quelle della collezione Intesa SanPaolo, ci troviamo innanzi a un bell'esempio del paesaggismo di Calvi attorno al 1875, vale a dire quando abbandona i soggetti risorgimentali per aprirsi a un paesaggismo descritto con minuzia ma non senza brani di ariosa poesia rappresentati da un brulicare di comparse colte nelle più diverse attitudini.
Nel caso della bella tela dell'I.T.I.S., si riconosce una delle sue migliori vedute nei pressi di Pescarenico, ovvero di quell'angolo nei pressi di Lecco reso immortale da Alessandro Manzoni. L'opera dimostra chiaramente il tipo di pittore e il perché andò incontro ad una sfortuna critica già a partire dalla fine dell'Ottocento.
Da raffronti con il nucleo di opere presenti nella collezione del Banco Popolare di Verona e quelle della collezione Intesa SanPaolo, ci troviamo innanzi a un bell'esempio del paesaggismo di Calvi attorno al 1875, vale a dire quando abbandona i soggetti risorgimentali per aprirsi a un paesaggismo descritto con minuzia ma non senza brani di ariosa poesia rappresentati da un brulicare di comparse colte nelle più diverse attitudini.
Paesaggio
Personaggio eccentrico e affascinante, Giorgio Milia possiede in un sicuro mestiere e in un tonalismo che passa da brutale a impercettibile, le sue armi migliori. Il Paesaggio dell'ITIS, realizzato a ridosso della prematura scomparsa, dimostra chiaramente il talento di un uomo che cercava più di capire che di imporre un proprio linguaggio; se della lezione morandiana egli aveva coscienza, ne declinava quasi in modo del tutto naturale il senso del paesaggio che, come in questo caso, ha una metrica temporale più che spaziale; l'impressione finale, infatti, è di trovarsi dinanzi ad un teschio immerso in variazioni di rosso.
Montenegrina
La data di nascita di Antonio Zuccaro rimane ancora oggi un mistero, nonostante la consultazione dell'atto di battesimo da parte di Antonio Forniz nel lontano 1971 che lo vuole nato a San Vito al Tagliamento, nei pressi di Pordenone, nel 1815. Le fonti croate, invece, ne spostano la datazione di ben dodici anni, al 1827 o di dieci, al 1825. Diviene tutt'altro che secondario il risolvere tale diatriba, sia per quanto concerne la formazione accademica a Venezia sotto la guida di Ludovico Lipparini e Giuseppe Borsato avvenuta sino al 1853, sia per lo spostamento definitivo a Trieste dove aprì un affermato studio.
L'opera presente nella collezione dell'ITIS, tradizionalmente intitolata Montenegrina, raffigura in realtà una giovane della Herzegovina, tanto è palmare il raffronto con lo splendido busto, replicato più volte, di Ivan Rendic (Spalato, Galleria d'Arte Moderna). Sensualità e opulenza sono le carte qui giocate dal pittore; una figura femminile che tiene una sorta di liuto bordone, dai seni nascosti dietro l'appena percettibile panneggio, si presenta agghindata con elementi egizi, la collana con la testa di sfinge, o il velo rosso orlato di piastre dorate. Superbe le stoffe riccamente decorate che scendono sulle gambe. La figura della giovane erzegovina dalla possente fisicità viene inserita da Zuccaro in un paesaggio mediterraneo con tanto di palma sullo sfondo mentre, sulla sinistra, scorgiamo un elemento tra antichità e neo-seicentismo, vale a dire una colonna tortile.
L'opera presente nella collezione dell'ITIS, tradizionalmente intitolata Montenegrina, raffigura in realtà una giovane della Herzegovina, tanto è palmare il raffronto con lo splendido busto, replicato più volte, di Ivan Rendic (Spalato, Galleria d'Arte Moderna). Sensualità e opulenza sono le carte qui giocate dal pittore; una figura femminile che tiene una sorta di liuto bordone, dai seni nascosti dietro l'appena percettibile panneggio, si presenta agghindata con elementi egizi, la collana con la testa di sfinge, o il velo rosso orlato di piastre dorate. Superbe le stoffe riccamente decorate che scendono sulle gambe. La figura della giovane erzegovina dalla possente fisicità viene inserita da Zuccaro in un paesaggio mediterraneo con tanto di palma sullo sfondo mentre, sulla sinistra, scorgiamo un elemento tra antichità e neo-seicentismo, vale a dire una colonna tortile.
Ritratto di Pietro de Alimonda
Il ritratto di Pietro Melchiorre Alimonda dell'I.T.I.S. risulta fondamentale per comprendere il rapporto tra Zuccaro e gli Alimonda. Egli, infatti, non solo ritrasse il padre dei più noti Nino e Francesco (poi immortalati da Barison), ma fu chiamato a partire dal 1887 a decorare le sale del sontuoso castello di loro proprietà a Sagrado. Il dipinto dimostra l'abilità di Zuccaro nei confronti della ritrattistica ufficiale, senza temere le dimensioni impegnative, e potrebbe essere stato eseguito proprio in occasione dell'importante decorazione (la firma è tipica dei lavori del friulano negli anni Ottanta). Nel palazzo comunale di Muggia esiste un ritratto eseguito da Zuccaro nello stesso periodo di quello raffigurante Pietro de Alimonda – vale a dire tardo – strettamente legato alla storia dell'I.T.I.S: si tratta di Giuseppe de Tonello, immortalato tra le statue dell'atrio da Guglielmo Schiff, lo scultore al quale, per ironia della sorte, Zuccaro subentrò alla cattedra di disegno libero al Ginnasio di Trieste nel 1874.
Ritratto di Francesco de Alimonda
Giuseppe Barison, vale a dire uno dei migliori ritrattisti che Trieste abbia dato tra la fine del XIX e i primi del XX secolo, nei primissimi anni del Novecento realizzò una serie di ritratti piuttosto ufficiali, tra cui questo Ritratto di Francesco de Alimonda. L'opera insieme a quello del fratello Nino de Alimonda, fu realizzata nel 1905, quando Alberto Allodi dirigeva l'istituto generale di pubblica beneficenza. Direzione iniziata nel 1891 e protrattasi fino al 1906. Barison in questo caso si appoggia a modelli consolidati; egli, infatti, già nel 1891 aveva utilizzato il medesimo schema per raffigurare il presidente della Camera di Commercio, Salomone de Parente. In questo senso, i due ritratti aggiungono poco alla conoscenza del pittore che si indirizzava, ormai, verso scelte collaudate; emerge, tuttavia, la qualità nel ritratto di Francesco de Alimonda, colto nell'istante di lavoro, apprezzabile per una franchezza e una capacità di coglierne la temperatura psicologica da parte di Barison.
L'unione fa la forza
L'ITIS negli ultimi anni è diventato punto di riferimento per l'arte contemporanea a Trieste e l'arte è, da sempre, punto di riferimento per l'ITIS. Un autentico manifesto in tal senso è L'unione fa la forza di Bruno Chersicla, uno degli artisti più acclamati e noti fuori dal territorio giuliano che ha saputo, attraverso una lunga ricerca, trovare il proprio linguaggio, risultato raro e sempre sperato dagli artisti. La lezione di Dino Predonzani, già sul finire degli anni Cinquanta, gli va stretta e negli anni Sessanta decide, insieme ad amici e colleghi di fondare il gruppo Raccordosei (con lui Lilian Caraian, Enzo Cogno, Claudio Palcic, Nino Perizi e l'indimenticata Miela Reina). Nel 1966 si trasferisce a Milano e, dopo una fase di ricche sperimentazioni, approda ai celebri baroki, che attraverso un gioco di sagome incastrate fra loro, possono divenire altre forme grazie alla partecipazione diretta degli osservatori. Finalmente, nel 1997, il Museo Revoltella gli ha aperto le porte ad un'ampia, e meritata, retrospettiva.
Ritratto di Ferdinando Derigo
Vittorio Schiavon (Trieste 1861 – Amsterdam 1918)
Tecnica mista su tela di lino riportata su compensato, 73 x 51 cm.
Tecnica mista su tela di lino riportata su compensato, 73 x 51 cm.
Di Vittorio Schiavon sapevamo, sino ad oggi, due cose: nacque a Trieste nel 1861 e nel 1900 emigrò a Praga. Dopo varie ricerche, un numero alquanto sospetto di sue opere sono state segnalate ad Amsterdam e da lì si sono contattati i vari musei nella speranza di avere delle informazioni e, soprattutto, se quel Vittorio Schiavon era lo stesso presente all'Istituto. Il risultato è stato sorprendente.
Vittorio Schiavon, una volta capito che né Trieste né Praga potevano dargli il giusto spazio in ambito artistico partì, nei primissimi del Novecento, alla volta di Amsterdam dove divenne un pittore affermato. Entrò nel gruppo De Onafhankelijken, vale a dire gli artisti indipendenti olandesi, con i quali espose a più riprese (1913-17). Fu pure maestro della pittrice Nola Hatterman (1899-1984) e una sua opera di grande bellezza raffigurante uno scorcio della Westerkerke presso Amsterdam, si trova custodita al Museo Storico della capitale dei Paesi Bassi. Questo ritratto di Ferdinando Derigo diviene dunque, una delle poche opere “triestine” prima della fortunata partenza verso il nord. L'effigiato fu costantemente impegnato nelle vicende dell'Istituto e all'epoca fu, inoltre, proprietario del rinomato Caffé Imperiale.
Vittorio Schiavon, una volta capito che né Trieste né Praga potevano dargli il giusto spazio in ambito artistico partì, nei primissimi del Novecento, alla volta di Amsterdam dove divenne un pittore affermato. Entrò nel gruppo De Onafhankelijken, vale a dire gli artisti indipendenti olandesi, con i quali espose a più riprese (1913-17). Fu pure maestro della pittrice Nola Hatterman (1899-1984) e una sua opera di grande bellezza raffigurante uno scorcio della Westerkerke presso Amsterdam, si trova custodita al Museo Storico della capitale dei Paesi Bassi. Questo ritratto di Ferdinando Derigo diviene dunque, una delle poche opere “triestine” prima della fortunata partenza verso il nord. L'effigiato fu costantemente impegnato nelle vicende dell'Istituto e all'epoca fu, inoltre, proprietario del rinomato Caffé Imperiale.
Ritratto di Claudio Mitri (1981-1985)
Il pittore friulano, ma triestino d'adozione, Walter Falzari formò diverse generazioni di artisti giuliani. Allievo adorato da Giovanni Zangrando (1867-1941), ereditò dal maestro non solo un garbato accademismo ma pure lo studio in viale XX Settembre dopo la sopraggiunta morte. Nonostante egli fosse ben inserito nel tessuto artistico triestino dell'epoca – amico della scultore Nino Spagnoli e in ottimi rapporti con Pietro Lucano e Cesare Sofianopulo – solo nel 1982 gli venne allestita una mostra antologica di più ampio respiro.
L'ITIS, al pari di altre importanti istituzioni cittadine, lo chiamò per rendere omaggio a chi aveva guidato l'Istituto anche in anni remoti, con un ritratto desunto da una lastra fotografica. In questo senso, pare evidente la fissità nei ritratti di Teobaldo Zennaro e Bartolomeo Tamburini che diressero l'Istituto durante e immediatamente dopo i difficili anni della Seconda Guerra Mondiale e che Falzari si limita a dipingere in una sorta di “ricordo”.
Ben diverso, parlante e armonioso, è invece il ritratto di Claudio
Mitri realizzato mentre alla sua guida (1981-1985) nacquero, nel
1982, i primi centri diurni d'aggregazione. Si evidenzia, nel modo di dipingere di Falzari, le qualità di pittore naturalista che si trova a proprio agio nel ritrarre, con mitigato verismo, una natura che egli può fissare 'da viva', vale a dire in movimento.
L'ITIS, al pari di altre importanti istituzioni cittadine, lo chiamò per rendere omaggio a chi aveva guidato l'Istituto anche in anni remoti, con un ritratto desunto da una lastra fotografica. In questo senso, pare evidente la fissità nei ritratti di Teobaldo Zennaro e Bartolomeo Tamburini che diressero l'Istituto durante e immediatamente dopo i difficili anni della Seconda Guerra Mondiale e che Falzari si limita a dipingere in una sorta di “ricordo”.
Ben diverso, parlante e armonioso, è invece il ritratto di Claudio
Mitri realizzato mentre alla sua guida (1981-1985) nacquero, nel
1982, i primi centri diurni d'aggregazione. Si evidenzia, nel modo di dipingere di Falzari, le qualità di pittore naturalista che si trova a proprio agio nel ritrarre, con mitigato verismo, una natura che egli può fissare 'da viva', vale a dire in movimento.
Ritratto di Ferdinando Scarazzato (1966-1975)
Il piacentino Ulisse Sartini proseguì la serie dei ritratti degli amministratori in tempi moderni. Venne chiamato, come lui stesso ricorda con entusiasmo, dopo la mostra personale del 1988 allestita a Trieste negli spazi di palazzo Costanzi. Portò a termine ben cinque ritratti nella galleria degli amministratori, alcuni con ammaliante resa cromatica. E' il caso del qui presente ritratto di Ferdinando Scarrazzato, alla guida dell'Istituto tra il 1966 e il 1975, dove i richiami al ritratto cinquecentesco, con tanto di apertura paesistica, paiono evidenti ma non portati a un mero citazionismo.
La luce belliniana scende a descrivere il volto nei minimi dettagli, mentre il blu oltremare del maglione diviene fulcro cromatico della composizione. Ricordiamo gli altri ritratti realizzati da Sartini per l'ITIS: il ritratto di Giulio Chicco (presidente dal 1962 al 1966), il ritratto di Guglielmo Lipossi (presidente dal 1959 al 1962), il ritratto di Pietro Agostini (alla guida dell'ente tra il 1975 e il 1981) contraddistinto, al pari di Scarazzato, da un fulcro cromatico – in questo caso la cravatta rossa – e infine, Giorgio Satti, realizzato nel 1995 quando Sartini era alle prese nientemeno che con il ritratto del primo ministro inglese John Major.
La luce belliniana scende a descrivere il volto nei minimi dettagli, mentre il blu oltremare del maglione diviene fulcro cromatico della composizione. Ricordiamo gli altri ritratti realizzati da Sartini per l'ITIS: il ritratto di Giulio Chicco (presidente dal 1962 al 1966), il ritratto di Guglielmo Lipossi (presidente dal 1959 al 1962), il ritratto di Pietro Agostini (alla guida dell'ente tra il 1975 e il 1981) contraddistinto, al pari di Scarazzato, da un fulcro cromatico – in questo caso la cravatta rossa – e infine, Giorgio Satti, realizzato nel 1995 quando Sartini era alle prese nientemeno che con il ritratto del primo ministro inglese John Major.
Giuditta e Oloferne
Il dipinto riprende il celebre episodio vetero testamentario di Giuditta, l’eroina che riuscì a sventare l’assedio assiro alla città ebraica di Betulia. La donna, bella e attraente, dopo esser stata ammessa al campo nemico, riuscì ad attirare le attenzioni del generale assiro Oloferne, il quale invaghitosi della donna acconsentì, in chiusura di un banchetto, di rimaner da solo con lei. Le cospicue libagioni assaporate durante la festa non gli permisero però di opporre la necessaria resistenza allorquando la donna, sguaiata la spada, gli recise con colpo secco il capo. La notizia della morte del loro condottiero gettò lo scompiglio tra gli assiri che fuggirono inseguiti dagli israeliti. L’episodio qui raffigurato riprende il momento successivo, quando la bella eroina rientra in città con, a guisa di trofeo da ostentare, la testa mozzata del generale assiro: l’allusione alla decapitazione permane nell’elegante elsa della spada, ancora insanguinata, che si scorge sotto il capo di Oloferne; contestualmente, le fanciulle d’Israele, con tamburello e cimbali, la circondano festeggiandola.
La buona qualità del dipinto tradisce l’intervento di un maestro da indivuare, è pensabile, nel pittore veneziano Giuseppe Nogari. La vicenda artistica di Nogari si sviluppò in diversi centri italiani, da Venezia a Torino, passando per Milano. In questo dipinto, ben congegnato appare il silente gioco di sguardi che porta la fanciulla con tamburello a interrogare l’eroina, mentre la sua compagna tenta un dialogo esterno con l’osservatore. La cifra stilistica risulta fragrante nella scelta cromatica e nella resa del mantello, della veste e degli incarnati di Giuditta; più streotipata, sulla base di modelli consolidati, la costruzione delle teste di fondo, che trovano un corrispettivo in quei gruppi allegorici dipinti dall’artista, a guisa di sopraporte, nella biblioteca della Palazzina di Stupinigi a Torino.
La buona qualità del dipinto tradisce l’intervento di un maestro da indivuare, è pensabile, nel pittore veneziano Giuseppe Nogari. La vicenda artistica di Nogari si sviluppò in diversi centri italiani, da Venezia a Torino, passando per Milano. In questo dipinto, ben congegnato appare il silente gioco di sguardi che porta la fanciulla con tamburello a interrogare l’eroina, mentre la sua compagna tenta un dialogo esterno con l’osservatore. La cifra stilistica risulta fragrante nella scelta cromatica e nella resa del mantello, della veste e degli incarnati di Giuditta; più streotipata, sulla base di modelli consolidati, la costruzione delle teste di fondo, che trovano un corrispettivo in quei gruppi allegorici dipinti dall’artista, a guisa di sopraporte, nella biblioteca della Palazzina di Stupinigi a Torino.
Nudo femminile
Con Alfredo Tominz e Gino De Finetti è stato il pittore dei cavalli per antonomasia a Trieste. Eppure le sue figure, come scrisse Salvatore Maugeri, “attraverso un forte dinamismo, assumono un carattere selvaggio e di prorompente vitalità”; come in questo caso, dove la figura femminile può concorrere, per segno e forza, con quelle di un Guttuso anni Cinquanta.
Attratto dalle ricerche surrealiste e da certo futurismo, Bomben tentò di dare alla figurazione una forza dirompente che portava quasi alle porte dell'astrattismo. Riconosciuto per la propria ricerca alle molteplici personali (oltre cinquanta) che tenne in Francia, Spagna, Stati Uniti, Belgio e Germania, ottenne una discreta fama tanto che una sua opera fa bella mostra di sé alla Galleria d'Arte Moderna di Roma. Si è scelto un'opera che si discosta dal consueto repertorio dell'artista, che all'ITIS è ben rappresentato.
Attratto dalle ricerche surrealiste e da certo futurismo, Bomben tentò di dare alla figurazione una forza dirompente che portava quasi alle porte dell'astrattismo. Riconosciuto per la propria ricerca alle molteplici personali (oltre cinquanta) che tenne in Francia, Spagna, Stati Uniti, Belgio e Germania, ottenne una discreta fama tanto che una sua opera fa bella mostra di sé alla Galleria d'Arte Moderna di Roma. Si è scelto un'opera che si discosta dal consueto repertorio dell'artista, che all'ITIS è ben rappresentato.